Artista visiva, pittrice italiana nata a Benevento ​ vive e lavora a Roma.

• Anno 1999 Partecipa al Festival dei Madonnari nella cittadina di San Marino provincia di Roma

• Anno 2000: Vive a Parigi venendo in contatto con l’attività artistica underground francese.

• Negli anni successivi dimora in varie città italiane tra cui Bologna, Milano, Firenze e Napoli in continuo contatto con i circuiti underground dei luoghi.

• Anno 2008 Personale presso la galleria Contemporastudio di Firenze

• Anno 2010 Espone al congresso tenuto dalla cgil sul corpo delle donne al Teatro Nuovo di Napoli.

Personale a Napoli presso il giardino del Professore Oliviero

Espone una sua opera “La Pietà”in un locale del centro storico di Napoli.

• Anno 2012 / 2015 Varie esposizioni in locali di Roma

Anno 2016 Personale presso la Libreria Anomalia Roma

• Anno 2018 Personale presso il Caffè Letterario Intra Moenia di Napoli

.Anno 2019 finalista del Rospigliosi Art Prize 2019

FORMAZIONE


Diplomata in Pittura con Aldo Turchiaro presso l’Accademia

Di Belle Arti di Roma. Votazione: 110 e lode su110

Corso integrativo

Diploma di maturità artistica conseguito presso il Liceo Artistico ​di Benevento (sezione Architettura).

Diploma di maturità artistica conseguito presso il Liceo Artistico ​di Campobasso (sezione Accademia).


MOSTRE

Negli anni del liceo ha partecipato a varie collettive sia a ​Benevento che a Napoli

• Anno 1996/1997 Collabora con il centro Psichiatrico diurno ​“Villa LAIS” che ha sede in Roma

Anno 1997/1998 Partecipa ad un progetto europeo presso ​l’associazione non governativa “Cooperations” con sede a Wiltz ​in Lussemburgo tenendo dei work-shops di pittura in ​Lussemburgo e in Portogallo

• Negli anni accademici partecipa a varie collettive tra cui ​“ACCADEMIE” gemellaggio tra l’Accademia di Roma e ​L’accademia di Brera (Milano)

Francesca Deborah Artist


Il velo dipinto

Di Deborah Francesca


Il volto dell’Altro è anche il volto dell’Autrice. Il confronto con il volto, costringe ognuno di noi a

ripensare i fondamenti della sua cultura. Nella visione del quadro lo comprendiamo solo passando dal

principio di identità al principio di alterità, dal primato dell’io al primato dell’altro. Possiamo

comprendere noi stessi solo se comprendiamo l’estraneità dell’altro e l’etica nasce proprio come

scoperta dell’alterità. Esercitiamo responsabilità nel guardare il volto perché la vera responsabilità

esalta la diversità e conduce a un’adesione all’altro nella sua alterità, che è anche unicità dell’essere.

Chi è l’Altro e qual è il senso profondo di questo “volto”? Il volto dell’altro è il limite che ci interroga

continuamente ed è la rivelazione di una trascendenza. Riconoscendo l’insostituibilità dell’altro,

riconosco me stesso e prendo possesso del mondo. In questo volto velato eppure nitido si manifesta la presenza e ​la voce: l’Altro si espone, si lascia incontrare e conoscere.

L’Altro mi riguarda non perché è come me, ma perché mi scopre, mi interroga.

Il volto diventa raffigurazione dell’umano, scoperta

dell’altro come ricchezza, ci porta a comprendere la preziosità dell’uomo singolo e concreto,

restituendogli dignità. Lo sguardo dell’Altro determina il mio crescere come persona, è il primo e

l’ultimo sguardo del mondo. Nella scoperta dell’alterità scopriamo noi stessi e ci specchiamo nel

mistero dell’Umano, come fossimo i soli a poterlo fare.


Marilina Veca

Francesca Deborah Artist


PIETA’

Come Adamo di prima mattina

usciva all’aperto ristorato dal sonno,

guardate dove passo, ascoltate la voce, avvicinatevi,

toccatemi, posate la palma della mano sul mio corpo

mentre passo,

non abbiate paura del mio corpo”.


WALT WHITMAN


Paura di esistere. Dunque umani. Una crescente bulimia di immagini che parlano, perché di pulsante carne, ricordiamocelo, siamo ​fatti, di sangue e materia, nient’altro. Manifesto del dolore è il corpo, come di speranza. Fisicità apparentemente fragile, certamente ​unica, che invece sa incassare le suggestioni di intorni spaventosi. Cellula di solitudine sono gli abbracci, il contatto. Sono solo le ​contingenze, ormai, a dare impulsi al nostro istinto, quando invece, è nella storia, la nostra fisicità dovrebbe essere l’unico sistema ​di rapportarsi al mondo e al prossimo. Sempre più narcotizzata dalla società è la sapienza innata dell’uomo di svelare la propria ​intimità. La propria umanità. Paura di soffrire. Dunque esistenza. Esserci, come voragine da offrire, sommata ad altre voragini, al ​mondo e al prossimo. L’uomo è un abisso capace di sentire le profondità dell’altro. O almeno lo era. Lo era prima che iniziasse a ​camminare sul sentiero dell’individualismo. Prima che inciampasse nella tagliola della mancanza di tempo. Prima che si facesse ​corrompere da nuove rivalità indotte. Il branco s’è disgregato in favore di tanti capi branco in cerca d’integrazione. In attesa di ​riconoscimenti, affamati di meriti in cui loro stessi stentano a credere. Sacrificano la propria natura in onore dell’artificio, di ciò che ​rassicura, di modelli di carta straccia creati da potenti dannati. È cambiato il concetto di dannazione. Ora i dannati godono, ​alleviano la loro condizione grazie a effimere soddisfazioni. E questo è terribile. Non saranno mai sereni i dannati di oggi, perché, a ​differenza dei loro antenati, sono ciechi. Resi ciechi. Abilmente ottenebrati da capacità che inseguono senza sapere di non ​possedere. Paura di provare pietà. Dunque ritorno. Il ritorno a quell’abbraccio di madre, che fu il primo.




Il grosso ed egoistico privilegio: la speranza che possa essere l’ultimo. L’assoluto egoismo che questo desiderio reca con sé. La ​nuova dannazione è cieca, non vede nella fine la testimonianza dell’esserci stati. Assimila il terrore più che per l’apocalisse di ​un’altra genesi. Viviamo un tempo in cui sembra illimitata la capacità d’incontro. In cui sembra naturale instaurare un rapporto. È ​doveroso instaurare un rapporto, al giorno d’oggi, l’ennesima delle infinite possibilità che collezioniamo, senza accorgerci che ​portiamo inezie di noi. Che non siamo quello. Che quello non provoca nulla, al buio interno e fitto delle nostre carni. Nulla al nostro ​corpo. È il corpo che nella rappresentazione della sua disfatta, in quel tempo e in quei modi che segnano il suo inevitabile ​decomporsi, diviene l’unico sigillo di autenticità del proprio vissuto. Nella rappresentazione che non siamo più capaci di provare, o ​semplicemente di vedere, sta l’energia di queste tele. Un percorso che ti trascina fino alla tua identità di voragine. Fino alla ​riscoperta di intendere gli abissi intorno a te. Colori freddi e forme rigorose, che non sei più in grado di riconoscere, martellato ​sapientemente dall’esatto contrario. Tele che intendono l’origine. Paura dell’origine, perché è lì che circola l’ignoto più che in ogni ​altro luogo. Dunque dramma. Sradicato dalla frequentazione quotidiana della sterile immagine di te stesso, ti specchi di nuova ​luce. Ed è tremendo. Specchi, queste tele, che riflettono come un vago sogno il brodo primordiale nel quale ti sei formato, marchio ​indelebile che accomuna tutti gli esseri umani. Che hai via via rinnegato fino a divenire un fantoccio viziato. Il soggetto di queste ​tele è la verità umana, tu solo una riproduzione fallata e discostante. Sarai per sempre solo, se non farai molti passi indietro per ​andare incontro a questa verità. Sarai per sempre un capo branco vagabondo, all’isterica ricerca di qualcosa che mai sarai in ​grado di raggiungere. O di distinguere, eternamente alle prese con altro. Fermati, tocca, fatti toccare; riscopri il valore del tempo; ​prova a sentire quanto è più forte il calore e quanto più intenso il riverbero di un abbraccio; quanta più energia c’è in uno ​sconosciuto che sta al tuo fianco, quanto più valore ha il sangue rispetto a tutto l’oro del mondo; questo dicono queste tele. È un ​grido disperato, quello di queste tele, e io non posso credere che sei arrivato a essere così sordo.


Non posso crederlo.

Non ci riesco.

Emmanuele Bianco

Francesca Deborah Artist


Francesca Deborah Artist